Ass. Andrea Ranieri

 

Confesso che quando la figlia Monica e la sorella Paola vennero a trovarmi per chiedermi sostegno per fare a Roma, dove l’artista aveva vissuto e operato negli ultimi anni della sua vita, una mostra antologica di Giovanni Profumo, non conoscevo né l’opera né la storia di questo straordinario pittore genovese.
Ma mi colpirono la forza, la determinazione con cui le due signore volevano riproporre l’opera del loro congiunto, strapparla ad un oblio che, me ne accorsi dopo, guardando i quadri, appare del tutto immotivato.  E sono grato alla provincia di Roma per aver  reso possibile la mostra di questo pittore ligure, che trascorse a Roma tanta parte della sua vita.
Il relativo oblio di Profumo è in gran parte attribuibile al modo in cui spesso, troppo spesso, la critica d’arte tende ad assorbire nelle proprie categoria, nelle proprie problematiche, quello che per ogni artista è il suo problema, quello cioè di rendere sulla tela  insieme il mondo e il suo sguardo sul mondo.
Nella contrapposizione “pietrificata” tra figurativo ed astratto Profumo era difficilmente inquadrabile. Forti elementi di astrazione, sulla via della metafisica lirica, non programmatica, del suo maestro Paolo Rodocanachi sono presenti nei suoi paesaggi liguri, e il mondo, il suo sguardo sul mondo, la luce del mondo, del cielo e del mare, è presente nelle opere astratte dell’ultimo periodo, che egli in maniera paradossale, ma non troppo, continuerà a definire “paesaggi”.
E stonava con tante recentissime tendenze il suo restare ostinatamente pittore, artigiano del colore, del pennello e dei suoi peli, della spatola che stende e che raschia.
Rispetto ad un’idea di astrazione che proponeva le sue opere come nuovi oggetti per il mondo, proprio perché il mondo avevano rinunciato a rappresentarlo, Profumo trasgredisce due volte: col proprio sguardo, e con la propria mano, il cui fare tenace, prepotentemente soggettivo, è sempre presente sulla tela.
Ne risultano quadri che più che rimandarti ad altri quadri, ti rimandano al mondo, alla sua luce, ai suoi colori, per verificare dal vivo la pienezza ed il  vuoto, il dicibile e l’indicibile, del rapporto fra l’uomo e la natura.
E per verificare magari se è possibile trovare un varco verso l’inesprimibile, “l’anello che non tiene”, a cui sembrano alludere le aperture di ancora più intensa luminosità e chiarezza, che si fanno strada al centro delle strutture di luce dell’ultimo periodo, e in cui mi piace trovare un’eco – magari tramite Rodocanachi e la moglie Lucia Morpurgo – del “varco” verso un altrove, con  tanta intensità ricercato da Eugenio Montale nella sua poesia.

 

 
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