Anni '90

La vicenda della pittura monocromatica nell’arte moderna occidentale è lunga e complessa. Nella Russia rivoluzionaria si possono individuare le fonti teoriche e pratiche dei due principali filoni nella storia del monocromo: se il quadrato bianco su tela bianca di Malevich (1918) sta all’origine della tendenza più spirituale, il trittico di Rodchenko, puro colore rosso, puro colore giallo, puro colore blu (1921) avvia una riflessione materialista sul quadro in quanto oggetto e sull’opera d’arte in quanto bene di consumo.

Ma una distinzione netta tra monocromi spirituali e monocromi materialisti sarebbe semplicistica e storicamente limitante, anche perché già con le Neo-avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta, da Lucio Fontana a Yves Klein, queste categorie vengono attaccate deliberatamente e la pittura monocroma è utilizzata simultaneamente come riflessione sullo status culturale, sociale ed economico dell’opera d’arte in quanto cosa tangibile e possedibile, ma anche come strumento ultimo della sacralità nell’arte e di sublimazione della sua tangibile fisicità.
Per quanto l’opera di Profumo vada certamente annoverata tra la progenie di Malevich più che di Rodchenko - quella che da Rothko giunge a Kapoor -, è ancora una volta la dimensione dialettica a prevalervi. Le opere che espone nel 1991 alla galleria torinese L’Uovo di Struzzo sono tele di piccolo e medio formato (non superano mai il metro e mezzo) in cui la campitura del colore è aperta da uno squarcio centrale di luce o di ombra. Tutto si gioca in superficie: la pittura monocroma e lucida è una tempesta di piccole spatolate che fanno vibrare l’epidermide dell’opera. Il quadro si dichiara oggetto e rivela gli strumenti e i gesti con cui è stato realizzato, ma è allo stesso tempo terminale visibile di uno spazio altro, luminoso e infinito. Il gioco è tra la luce illusoria - rappresentata nello squarcio centrale attraverso la tecnica tradizionale del chiaroscuro – e quella reale che cambia in infinite varianti allo spostarsi di chi guarda e al mutare dell’illuminazione esterna.
Rivelatorio per chi scrive è stato vedere come per riprodurre al meglio in catalogo la motilità luminosa di queste superfici pittoriche, il fotografo Dragonetti abbia scattato le fotografie di queste opere al buio quasi totale, con esposizioni lunghissime. È un accorgimento tecnico che bene corrisponde alla lezione di Profumo: la pittura non è solo strumento di visualizzazione, modo per mostrare una visione, ma è anche un suggerimento circa le modalità del guardare. L’artista costringe chi guarda l’opera a raffinare la propria capacità di vedere e di toccare con lo sguardo, a rallentarne i tempi. Non c’è niente da riconoscere, misurare o contare: lo sguardo diviene puramente qualitativo.
A questa prima prolifica serie, ne segue una seconda, che caratterizza l’ultima ricerca dell’artista, dove il colore lucido è sostituito da una pittura a olio più morbida, che assorbe lo sguardo. Alle spatolate sono seguite pennellate pastose di colore che riempiono incastri geometrici non molto lontani da quelli che componevano le opere dei primi anni Sessanta. L’occhio non rimbalza più su una materia pittorica riflettente, ma scorre sedotto per i percorsi segnati dalle setole del pennello (viene in mente Morandi). Ed è come se la luce che prima trapelava da sotto si rivelasse finalmente in tutta la sua potenza brillante, profonda.

 
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