Sergio Givone

"Morire alla luce” potrebbe essere l’esergo da apporre all’intera opera di Giovanni Profumo. Lo ricavo da alcuni versi dello stesso Profumo: “Perché affollare / la mia mente / di simboli? / Tutto era, è, sarà ‘luce’ / è sufficiente morire”. La parafrasi che qui propongo va letta nel senso di una vera e propria poetica: quella che ispira e sostiene l’intero percorso dell’artista genovese. 
Dal figurativo all’astrattismo. Passaggio, questo, che non è avvenuto attraverso un lento lavoro di prosciugamento, tipizzazione ed idealizzazione delle forme, come spesso si era visto nel corso delle avanguardie storiche. E neppure in forza di un’enfasi ascetica a sfondo religioso. Ma quasi senza soluzione di continuità. Oserei dire: immediatamente e al di fuori di qualsiasi dinamica processuale. Come se i delicati e luminosi paesaggi liguri che Profumo amorevolmente aveva preso a tema della sua pittura alludessero già a tutt’altro. E come se questo tutt’altro, una volta convertito in spazi e figure e luminosità non più figurative ma per l’appunto astratte, continuasse a portare dentro di sé l’immagine indimenticabile di quella determinata terra e di nessun’altra, la Liguria.
Erano gli anni Sessanta e tutto si consumò nell’arco di una breve stagione. Le alte case svettanti, come aggrappate a piccole anse o appoggiate a scogli e promontori, di colpo cessano di essere case, diventano puri volumi, non rappresentano più alcunché. Dalle facciate dipinte a vividi colori pastello la luce è scivolata altrove, ma per ricadere su se stessa e rapprendersi in nuove configurazioni materiche: il cui ritmo compositivo, però, è lo stesso di prima. Se prima erano case, ora sono volumi, figure della mente. Nulla è cambiato, nel profondo. A essere rimasto la stesso, fedele alla sua poetica, è Giovanni Profumo.
C’è chi ha giustamente osservato che l’anima dell’arte di Profumo è una certa idea di matematica, una certa idea di geometria. Matematica come conoscenza di un mondo ricondotto ai suoi elementi essenziali. Geometria come matematica applicata alla individuazione dei rapporti che questi elementi essenziali hanno fra di essi nello spazio. Ma la pittura non sarebbe pittura (sarebbe matematica o geometria) se non avesse un suo contenuto specifico e irriducibile, un suo obiettivo, un suo telos: la luce. La pittura è l’arte della luce. Attraverso la matematica e la geometria secondo Profumo la pittura dà la caccia alla luce, riesce a catturarla, lasciandola infine manifestarsi e sfolgorare sovrana.
Occorre perciò risolvere la realtà in modo che ogni cosa, secondo le tre dimensioni che la compongono, altezza lunghezza profondità, diventi epifania di luce. In base a quella che del resto è l’antica sapienza inscritta in una tradizione di cui Giovanni Profumo è il consapevole erede. Dagli anni Sessanta agli anni Novanta Profumo ha proseguito instancabilmente e umilmente lungo la sua strada, senza mai deflettere, interamente dedito al suo compito. Dipingere la luce. Far risplendere la luce. Si può dire che abbia dipinto da allora sempre lo stesso quadro. Ma proprio per questo ogni suo quadro è meravigliosamente nuovo e originale. Come solo accade quando la luce è fatta filtrare in un prisma di cristallo che ruota su se stesso.
Sì, “è sufficiente morire”, dice Profumo con sublime understatement. “Morire alla luce”,  mi permetterei di aggiungere.

Sergio Givone

 

 
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